Antefatto

Un ferroviere

Da qualche tempo, non so perché, ma sento nella testa strane voci. Non l’ho ancora detto a nessuno, forse che sto impazzendo. Torno a casa...

sabato 14 febbraio 2015

Uno spiritoso

Tutti mi picchiano. Tutti si arrabbiano.
In questi anni ho rimediato un sacco di calci, pugni e insulti.
Quando arrivo in ospedale, in una qualsiasi città, non mi chiedono neanche più il nome. Sanno già chi sono. Sono una piccola celebrità delle contusioni e dei traumi. Ma non verso lacrime, quello mai. La mia impronta sono il sorriso e il naso rosso.

Nacqui in un giorno di pioggia fragorosa, impetuosa, insistente. Seguita poi dal nulla. Il cielo si rischiarò poco dopo.

Nacqui in un pub. Nella nebbia del fumo delle sigarette, tra i vapori dell'alcool forte, mischiati all'odore dolce della birra.

Il mio paese era molto piccolo. Non c'erano una farmacia, né un ospedale né un'edicola. Quindi ci si arrangiava: ci si curava ed informava nel pub, o tuttalpiù nella chiesetta, unico altro servizio presente.

Quel giorno mia madre era andata a prendere di forza mio padre, che stava curando la cirrosi insieme al prete.
Erano una sorta di omeopati.
La mamma voleva dirgli di prendere la macchina per andare in città, in ospedale, perché sentiva che stavo per venire fuori. Ma la conversazione col parroco era troppo importante per essere terminata così velocemente. Parlavano di chi avrebbe dovuto pagare il prossimo giro.

In quel luogo umido, si ruppero le acque.
La padrona, da bravo surrogato di medico quale era, seppe fare anche l'ostetrica. In men che non si dica, mi aveva tirato fuori, tagliando il cordone omeblicale col coltello per il pane e avvolgendomi nella giacca del marito che, intanto, si era unito a mio padre e al prete, per fare un brindisi alla mia nascita. Assente seppur presente, con quel sorriso mio padre ci morì. Fu l'unica cosa buona che mi insegnò.

Avevo dodici anni quando ne rimasi orfano.
Diventò giallo come una pannocchia di mais. Poi, piegato in due dal dolore, finì tra le coperte. Ci restò un mese.
Mi chiamò.
Mi disse che se ne andava. Ma che non sapeva quando. Non sapeva neanche dove andava. Disse ridacchiando che forse l'autobus era in ritardo. Tossì. Rise. Tossì di nuovo. E d'un tratto divenne cadavere.

In un solo momento, mi ritrovai a fissare un morto, quando pochi secondi prima ancora mi parlava. Assistevo ad una tragedia, ma non me ne rendevo conto.
La cosa brutta è che avevo riso con lui.

Andai a fumare una sigaretta, perché non riuscivo a smettere di pensare "cenere alla cenere". Fu la prima della mia vita.
Nessuno mi fermò. Nessuno mi chiese alcunché.

Poi, anche mia madre, negli ultimi anni, cominciò ad innamorarsi del vino. Quando tornavo a casa da scuola, la trovavo al tavolo che parlava da sola, ridendo o piangendo.
Parlava col bicchiere.

Quel suo animo sarcastico mi rimase appiccicato addosso, come l'odore delle sue schifose sigarette da quattro soldi. Dai capelli e dalla pelle era entrato dentro di me.

Anche lei morì.
Avevo quindici anni.
Il parroco mi stava facendo bere il sangue di Dio, quando la vicina di casa entrò nella chiesa, gridando.
Chiamandomi per nome, piangendo, mi strillò di andare a casa.
Io avevo già capito. Senza mai desiderarlo, non aspettavo altro. Nel senso che me lo aspettavo. Di notte, mi svegliavo piangendo, perché sognavo la sua morte.

Perlomeno, non mi rimaneva una casa da pagare.

Fu così che finii all'orfanotrofio.

Ero già grande. Non mi fu difficile farmi amico il custode.
Usai il sorriso. Con quello, mio padre aveva pagato, senza dare alcun soldo, un anno di affitto. Certo, mia madre era nell'altra stanza, gonfia di lacrime. Ma il padrone di casa questo non lo sapeva.

Quando seppi dove si trovavano le bottiglie, mi ci vollero solo sei mesi per finirle tutte.

Poco prima della messa Oriano, il custode, mi si avvicinò. Mi disse che il vino era finito, che lui avrebbe potuto passare dei guai. Gli risi in faccia, e mi mollò un ceffone.
Di lì a due ore, ero fuori del portone. Una borsa tra le braccia e quasi sedici anni.

Non se la erano sentita di denunciarmi.
Gli cagai nel giardino, per ringraziarli.

Gli anni passarono senza che me ne accorgessi.
Faccio davvero fatica a rimettere insieme tutto quello che successe dopo.
So per certo che la barba piano piano si allungò. E che non avevo un rasoio per spuntarla.
Non ci volle molto prima che conoscessi il ponte.
Ma devo dirmi fortunato perché, almeno nella città in cui finii, ce ne erano parecchi.
Mentre guardavo l'acqua, prima di addormentarmi, mi sembrava di rivedere mia madre a mio padre. Era come un bicchiere che non smetteva mai di scorrere.

La prima coltellata la ricevetti a vent'anni. Per me fu come un regalo. Fu due giorni dopo il mio compleanno. Almeno, qualcuno mi aveva dato qualcosa.
In ospedale, un'infermiera si preoccupò così tanto che due giorni dopo essere uscito, presi un caffè sul suo divano.
Fu così che vidi per la prima volta una donna nuda.

Enrica era dolce, intelligente e stupida. Pensava che facendo l'amore avrei smesso di bere.

Le rubai tutti i soldi che nascondeva in un libro, prima di scomparire.

Certo, il letto caldo mi mancava. E i suoi occhi, così azzurri, al mattino era straziante non vederseli davanti.
Piangevo. Ma nella bottiglia c'era un Genio che mi asciugava le lacrime ogni volta che gli chiedevo di farlo.

Era lo stesso Genio che mio padre aveva trovato, strofinando una bottiglia.
Mi raccontava spesso questa storia, nei mesi prima di morire. Mi diceva che la vita andava presa col sorriso.
Mia madre, accanto a lui, sfregava la bottiglia, ridendo e piangendo. Lei al Genio non ci credeva, ma lo cercava disperatamente.

A ventidue anni finii in carcere.
Avevo rubato in un negozio. Un paio di cose da mangiare e due bottiglie di vino. Avrei volentieri lasciato il cibo, ma non quelle bottiglie. Per quello mi addebitarono "resistenza a pubblico ufficiale".
Io a quel Genio ci credevo. In fondo, era lì che si trovava il sangue di Cristo.

Quando uscii, non ero più lo stesso.
Facevo persino fatica a ricordare il mio nome. Ne avevo prese talmente tante che non piangevo più.
Essere di nuovo fuori fu così bello che andai subito a dormire sotto il ponte.
Per la prima volta, fu solo l'acqua che vidi scorrere.
Mi immaginai essere come quelle onde, libero di scivolare via.

E da allora, per me ridere e sorridere furono la cosa più importante.

Cominciai a frequentare il cimitero. Un tipo mi aveva detto che gli avevano offerto da mangiare un panino e, più tardi, al bar, un bicchiere di Sambuca. Certo, con le lacrime di contorno. Ma a me non importava.

Riuscii a rimediare da bere a cinque funerali.
Ma sentire tutte quelle sciocchezze mi diede alla testa più di tutto quello che riuscivo a scroccare.
A sentirli, sembrava che la cara persona non avesse mai neanche cagato.

Un giorno, mi presentai ad un funerale vestito da clown. In realtà, stavo prendendo in giro me stesso: avevo il naso rosso. Raccontai due barzellette, poi cominciai a scappare. Ne avevo cinque dietro.
Mi picchiarono con l'ombrello.
Ancora penso sia stato divertente: al mio funerale non vorrei gente piagnucolante, ma persone felici di avermi conosciuto.

Presi a frequentare un altro luogo ricco di speranze: il tribunale.
Ma io ero dietro a quelle perdute. I divorziandi li riconoscevo da centinaia di metri. Entravano quasi sempre in coppia, ma i loro testimoni erano degli avvocati.
A me, sembrava che si sposassero di nuovo.
Fu per quello che cominciai a suonare delle serenate strazianti, non appena li vedevo uscire.
Avevo investito tutto in un violino. Il frac lo avevo rubato.
Non ebbi molto successo. La mia aria di festa sembrava non trovare sostenitori. Forse perché non sapevo neanche cosa fosse una nota.

Mi spostai davanti alle chiese e ai comuni.
A me interessavano i contratti. Volevo che la gente ne realizzasse il ridicolo.
Un mio amico, o meglio, un tipo che avevo conosciuto in un parco, mi insegnò a strimpellare meglio il violino.
Mi specializzai nelle marce funebri. Mi ci vollero un paio di mesi per perfezionare la tecnica.
Ma ancora non ero abbastanza bravo: al primo matrimonio in cui comparsi, nessuno comprese cosa suonassi.
Poi, ognuno capì.
Ne fui sicuro quando un testimone mi tirò un calcio, facendomi cadere e incrinando il violino.
Solo al quarto matrimonio capii di essere in grado di suonare. Distrussi il rito proprio quando tiravano il riso.

Finii in ospedale per due mesi.
Stavolta, non c'era nessuna Enrica.

Trovai persino un lavoro, con il passare degli anni.
Facevo le consegne per un ristorante vegetariano.
Presi ad impacchettare le confezioni con del prosciutto. Di prima qualità, si intende.
Tre settimane in ospedale. E io che credevo i vegetariani fossero tutti pacifisti.


Un giorno, un dottore mi spiegò che stavo per morire. Che potevo cominciare a contare i giorni.
Gli risi in faccia, dicendogli che non sapevo contare oltre il sette. Mi disse di aggiungere dieci.
Era un tristo uomo coi baffi e la pancetta.
Avrei voluto avere il tamburello, lì con me. Avrei voluto saperlo suonare.

Due giorni fa, mi hanno messo su questo lettino.
Sorrido mentre aspetto la Madre Morte.
So che il sorriso è solo l'altro lato del broncio.